Quando mi è stato chiesto di scrivere un articolo sulla mia esperienza di Servizio Civile Universale in Bosnia, dopo un attimo di panico, la prima immagine che mi è venuta in mente è stata l’Una, il fiume di Bihać.
L’Una non è solo un corso d’acqua: è il cuore della città e dei suoi abitanti, ed è diventata anche per noi civiliste una presenza familiare. Nel primo mese, confuso e sballottato, il fiume ci ha rassicurato come una sorella silenziosa. Le papere, simbolo della città, con il loro buffo sedere all’aria, ci hanno regalato sorrisi nei momenti di sconforto.
D’estate un tuffo nelle sue acque fresche, dopo un turno al Social Cafè del campo di transito di Lipa o prima di iniziare la giornata al centro per minori in transito non accompagnati, diventa un rito rigenerante. D’autunno, invece, il fiume si veste di poesia: la foschia del mattino che avvolge le sponde lascia spazio, nel pomeriggio, a riflessi verdi e brillanti. Le mie colazioni sono state spesso accompagnate dal volo degli aironi e dal rumore incessante delle sue acque. L’Una ha visto passare secoli di storia: gli slavi, gli ottomani, le bombe, i cooperanti, i viaggiatori, i volontari. E ancora oggi continua a essere testimone.
Eppure, mentre scrivevo di lei, mi sono resa conto che non potevo raccontare solo il lato poetico del fiume.
Un giorno, osservando alcuni ragazzi in movimento lavarsi nelle sue acque, mi è tornata in mente la testimonianza raccolta al Social Cafè del campo di Lipa. Un giovane del Maghreb mi aveva raccontato che proprio su un fiume croato aveva interrotto il suo game, il tentativo di attraversare Croazia e Slovenia per arrivare in Italia. Lui e i suoi compagni erano stati fermati dalla polizia croata nei pressi di un fiume e respinti in Bosnia ed Erzegovina.
Da allora ho iniziato a guardare l’Una in modo diverso: non solo rifugio e confidente, ma anche frontiera. Un confine liquido che accoglie e respinge, che consola e divide. Come la Drina, confine naturale tra Serbia e Bosnia ed Erzegovina, che negli ultimi anni ha tolto la vita a molte persone. O come l’Evros, tra Grecia e Turchia, dove i respingimenti violenti sono pratica sistemica.
Al Social Cafè di IPSIA, ci sono tanti ragazzi come lui, ognuno con un sogno: l’Europa. C’è chi sogna di studiare, chi di lavorare, chi semplicemente di vivere una vita dignitosa. Eppure la stessa Europa che per loro rappresenta speranza e futuro, investe enormi risorse per respingerli, rinchiudendoli a mezz’ora dalla città in isobox nel mezzo della foresta negando diritti fondamentali a chi cerca soltanto un’opportunità.
“Europe or death”: non c’è scelta.
L’Una, allora, diventa un simbolo duplice: fiume di bellezza e libertà, ma anche linea di confine che separa e divide. Forse, in questo contrasto, c’è tutta la complessità della nostra esperienza in Bosnia: la convivenza costante tra la bellezza della natura bosniaca e la durezza delle frontiere.
Il fiume quindi diventa il simbolo perfetto del progetto Sharing is Caring: uno spazio di incontro, di contraddizione, di fragilità e speranza.
Iride Franzoni







