Vi ricordate la bacchetta magica delle storie per bambinə, quella con cui potevamo realizzare qualunque cosa noi desiderassimo? Un po’ alla stregua della lampada di Aladino, ma senza ansia del numero massimo di desideri oltre i quali se avevi scelto male ti tenevi la fregatura.
Ecco, immaginate per un momento di entrarvi in possesso e di poter realizzare qualsiasi cosa voi vogliate, ma che sia in qualche modo realistico. Quindi purtroppo niente cavalli volanti o teletrasporti istantanei dall’altra parte del pianeta, ma resta ancora un universo infinito di possibilità, vite e relazioni inesplorate tutte da scoprire. Vi invito a prendere un attimo per voi, fare due respiri e rispondere a questa domanda: “Se avessi la possibilità di realizzare qualsiasi cosa, cosa desidererei?", ovvero, "qual è il mio sogno? Cosa mi farebbe vivere la vita che davvero vorrei avere?”.
Spesso siamo così tanto presə dal tran-tran quotidiano che capita di ritrovarci ad invecchiare su dei pattern di vita che qualche mix di circostanze e forze esterne hanno scelto per noi. Mi chiedo quindi cosa succederebbe se invece provassimo a non dare per scontato cio' che ci circonda, se solo osassimo mettere in discussione quelle cornici che inevitabilmente circoscrivono e delimitano aspetti della nostra esistenza, come la famiglia, il quartiere, le regole, ma anche le nostre credenze, abitudini, comportamenti… sono tutte cornici entro le quali viviamo e costruiamo la nostra identità, consapevolmente o meno. Magari ci rendiamo conto che qualcosa lo preferiamo fare in un altro modo, che qualcos’altro non ci soddisfa come credevamo e che qualcos’altro ancora è una cosa bellissima a cui invece prima non davamo sufficiente attenzione. O magari no, e va bene cosi’, ma vale sempre la pena provarci.
Lo so, le societa' di oggi non sono affatto una fiaba, il collasso eco-climatico procede a un ritmo spaventoso, la situazione geopolitica globale fa tremare le gambe MA c’è ancora (e sempre) nell’aria un oceano di speranza e umanità, ed è vero che tutte le piccole o grandi rivoluzioni sono sempre partite da un sogno che all’inizio poteva pure sembrare irrealizzabile.
E’ così che mi sono messə ad offrire questa bacchetta magica nell’ultimo posto in cui ci si aspetterebbe di poterla usare: un campo di transito, il campo di Lipa. Un agglomerato di container bianchi in cui riprendersi dalle violenze della polizia di frontiera per poi riprovarci e riprovarci ancora, finché l’Europa non ti potrà piu’ rigettare così velocemente oltre la montagna o al di là del fiume.
Fra queste persone c’è Miftah, poco più di vent’anni, dal Marocco. Gira sempre insieme a un amico, giocano a biliardino, scherzano, sorridono. In un momento di tranquillità abbiamo cominciato una lunga conversazione aiutandoci col traduttore del telefono. Alla stessa domanda che ho posto qui sopra lui ha scritto questo: “Voglio rendere felice chiunque. Amo vedere la gioia nei volti delle persone, soprattutto mia madre, le voglio molto bene. Grazie a lei sono qui”. Mi racconta la storia di una resistenza femminile, di una madre che ha cresciuto suo figlio da sola nel migliore dei modi. “Era come mio padre, era molto forte, come una leonessa che vuole che il suo cucciolo diventi un leone; apprezzo molto i suoi sforzi per questo”.
Poi ho parlato con Justine, dalla Repubblica del Congo, ex colonia francese, non la Repubblica Democratica del Congo, colonia invece belga, come ci tiene a ricordare a chiunque glielo chieda. Il suo sogno è che la Francia “lasci in pace il suo paese”. Vuole tornare a vivere in Congo con la sua famiglia e stare bene. Me l’ha detto in una rara mattinata di sole, eravamo fuori dal Social Cafè, a farci riscaldare la faccia dai raggi del sole e a sorridere bellamente all’immagine di quel suo sogno che mi stava regalando. “..E poi ho un’impresa di falegnameria, io sono il capo e tratto bene i miei dipendenti. Mi sveglio tardi, c’è il sole, con calma vado in officina e osservo l’andamento dei lavori, dò consigli qua e là, li aiuto, mi complimento con loro. E si lavora solo quattro giorni a settimana, il resto è per godersi la vita, sennò cosa si lavora a fare?”. Che soddisfazione!
Infine c’è stato Benjamin, dall’Etiopia, che ha voluto strutturare una risposta più articolata, immaginandosi dapprima Capo di Stato (dell’Etiopia) per poi prendere in mano poteri internazionali.
“Prima di tutto”, comincia, “vieterei nel mio paese ogni riferimento all’etnia. Non ci sarebbero più differenze di trattamento, discriminazioni o violenze in base all’etnia. Esse sarebbero violenza contro l’umanità. Poi farei iniziare un dialogo fra politici, economisti, esperti di vario tipo e anche persone comuni, perché l’intero Paese appartiene a tutte le persone che lo abitano. Farei un governo di transizione per facilitare la democrazia, la pace e la stabilità. Dopo cinque anni, indirei delle elezioni libere e giuste. Nessun partito politico deve appartenere a qualche particolare etnia o religione; essi si distinguono per i diversi approcci economici che propongono. A questo punto, servono istituzioni stabili ed eque, che lavorano per tutte le persone del paese, non solo per qualche individuo o gruppo. Quindi, rifarei il sistema educativo, che deve essere per almeno il 70-80% pratico. Servono infatti più meccanici, falegnami, ingegneri eccetera. Questo aiuterebbe molte più persone…”. L’analisi politica continua e le idee sono tutte alquanto interessanti ed eloquenti.
Anche sul piano internazionale ne propone di belle, riassumibili in: “se un Paese va in Africa e prende l’uranio, pagherà per quello che compra”.
Gli chiedo infine se ha dei sogni più personali, sulla sua vita. “Vorrei andare in un posto in cui posso integrarmi, ricominciare una vita con un documento che mi permetta di stare legalmente lì. Così, se la situazione nel mio Paese migliora (nella pratica però, non solo sulla carta), potrò tornare a vivere in Etiopia ma avrò comunque un piano B nel caso qualcosa andasse storto, vista la situazione instabile del mio Paese. Ho speso metà della mia vita nel mio Paese, è lì che ho i legami più stretti”.
Li ringrazio per la fiducia, per aver avuto l’ardire di valicare insieme a me le cornici di quel campo di transito, della loro condizione di migranti, di persone senza documenti, rigettate a calci da una striscia di terra chiamata confine europeo. Eppure, raramente mi sento più arricchitə o ispiratə che quando li ascolto sognare, vedo i loro occhi illuminarsi, un sorriso inizialmente un po’ imbarazzato che poi si fa sempre più deciso e fiero. In questo caso, il sogno ha restituito loro qualche momento della dignità e della libertà che naturalmente gli spetterebbe, e spero che possa avergli infuso anche un po’ di coraggio in più per continuare il loro viaggio.