Sono Irene, volontaria di Servizio Civile per IPSIA a Bihać, cittadina situata a nord della Bosnia Erzegovina, a pochi chilometri dal confine con la Croazia. Sono arrivata qui a giugno 2023 e fin dal primo giorno ho percepito il rapporto di amore-odio che c’è tra la città di Bihać e i suoi abitanti. Sono in tanti ad andare fieri di questa bella cittadina, della sua storia e delle sue peculiarità, tra le quali ad esempio il fiume Una. Dall’altro lato della medaglia si trova invece chi considera Bihać una cittadina ormai spenta, con poco da offrire sia a livello lavorativo sia ricreativo. Per questo motivo, in tanti hanno deciso di lasciare la città e di cercare all’estero opportunità di vita migliori.
È proprio in questo contesto complesso e pieno di sfaccettature che si inserisce il passaggio della Balkan Route, percorsa da persone in movimento che arrivano da posti lontani come Afghanistan, Siria, Marocco, Cuba, Sierra Leone, Ghana, etc. IPSIA opera all’interno di due centri di accoglienza temporanea, supportando gli ospiti dei centri con attività psico-sociali che organizziamo nel nostro Social Cafè, uno spazio sicuro e protetto.
Vicino al centro della città di Bihać si trova uno dei due campi di transito per migranti, il campo di Borići, che accoglie famiglie e minori non accompagnati. Il mio primo giorno di servizio è iniziato proprio in questo campo e devo ammettere che quella mattina mi sono svegliata con un po’ di ansietta, perché non avevo idea di cosa aspettarmi. Una volta iniziato un gioco di carte con la prima famiglia cubana che ho conosciuto nel Social Cafè, la mia ansia mattutina è sparita e anzi, mi sono sentita felice grazie a quel primo contatto umano creatosi con loro. Mi ricordo che erano un papà, una mamma, un figlio di circa 14 anni e una figlia più piccola, di circa 5 anni. Dopo aver giocato a carte con loro quattro, mi sono fermata al tavolo con il figlio a chiacchierare di musica, mi ha fatto ascoltare qualche sua canzone preferita su Youtube e abbiamo scoperto che la sua band preferita era anche la mia band preferita di quando avevo la sua età: i My Chemical Romance! Erano anni che non li sentivo più nominare e non avrei mai pensato di ritrovarmi a cantare le loro canzoni con un ragazzo cubano in un campo di transito in Bosnia. Secondo momento di felicità della giornata!
Ho notato che, sul tavolo di fianco al nostro, il papà del ragazzo aveva iniziato a disegnare con dei pastelli a cera sopra un grande cartoncino bianco. Mi sono seduta di fronte a lui perché volevo scoprire cosa stesse disegnando e ho riconosciuto subito il viso bellissimo di una donna. Man mano che aggiungeva linee e colori al disegno ho constatato che fosse davvero un artista e successivamente lui me l’ha confermato, dicendomi anche che a Cuba, per sopravvivere, aveva iniziato a fare il tatuatore, ma che purtroppo nemmeno quel lavoro era bastato per sfamare la sua famiglia. Ha posato il gessetto sul tavolo, mi ha guardato negli occhi e mi ha detto: “Ho lasciato Cuba, la mia città, la mia casa e il mio lavoro per garantire un futuro alla mia famiglia. Ora devo trovare un modo per mantenere mia moglie e i miei figli in Europa. Non posso fallire, devo farlo per loro”. Entrambi avevamo le lacrime agli occhi, ho cercato di trasmettergli tutto l’affetto che provavo in quel momento attraverso un sorriso. Penso che abbia capito perché mi ha sorriso a sua volta.
Ho voluto raccontare questo mio “intimo” ricordo per trasmettere anche a voi alcune sensazioni che capita di provare nei centri di transito quando si condividono momenti e parole con i migranti ospiti. Utilizzando questa parola, “migranti”, sembra che si tenda a separare “loro” da “noi”. Se vi ritrovate nel “noi”, penso che voglia dire che come me siete nati dalla parte di mondo più fortunata.