Io sono Elena, volontaria di Servizio Civile con IPSIA in Bosnia Erzegovina, e in questo articolo vi voglio parlare del mio lavoro con i migranti nel centro di accoglienza temporanea di Lipa.
Chi segue il lavoro di IPSIA da un po’ già lo sa: Lipa è uno dei centri di accoglienza temporanea per i migranti in transito lungo questa rotta, dove l’organizzazione ha aperto uno dei suoi Social Cafè. Un Social Cafè è uno spazio fisico e un luogo di ritrovo, dove i migranti possono venire per una tazza di tè o caffè, e poi scegliere di restare per passare un po’ di tempo. Lo scopo del Social Cafè è quello di creare un po’ di normalità all’interno dei Centri, di modo che chi ci vive possa ritrovare il contatto umano che altrimenti mancherebbe. Di fatto, non è difficile da immaginare, ma i Centri di Transito non sono luoghi dove è semplice vivere.
Lipa ha una storia lunga e travagliata. L’intensificarsi del passaggio di migranti lungo la rotta balcanica sino in Bosnia Erzegovina – a partire dal 2018 in avanti - ha fatto in modo che un numero sempre maggiore di persone arrivasse a Bihac (se avete letto gli articoli delle mie colleghe, già sapete di cosa sto parlando). É nata quindi la necessità di creare dei luoghi dove accoglierle. In più occasioni la popolazione locale ha protestato perché i migranti vivevano nei pressi dei centri abitati, e dopo la chiusura di altri centri e vista l’emergenza Covid del 2020, le autorità locali hanno dato parere favorevole ad aprire un Centro di Emergenza in cima a un altopiano, lontano da qualsiasi città o paese.
Il primo campo di Lipa è nato come un campo provvisorio, con quattro tensostrutture che facevano da dormitorio e una come refettorio. È stato devastato da un incendio nel dicembre 2020, e solo nel novembre dell’anno successivo si è finalmente aperto il Centro come l’ho conosciuto io: una cittadella di container bianchi con una recinzione attorno e la polizia a sorvegliarla, in cima a una collina, nascosta dagli alberi e circondata da terreni dove ancora sono presenti i segni “attenzione mine”.
Il colore dominante è il bianco dei container, fra i quali c’è anche quello della hall di IPSIA, dove abbiamo il nostro Social Cafè. Da quando apriamo la mattina fino alla chiusura, serviamo tè e caffè, organizziamo giochi e laboratori creativi, corsi di lingua, e molto altro. Le chiamiamo ‘attività psicosociali’: il loro scopo è creare una sensazione di pace e normalità per i nostri ospiti, all’interno di un luogo che, di fatto, così normale non è. Al di là del luogo in sé, simile a molti altri lungo il cammino, chi percorre la rotta balcanica spesso vive esperienze traumatiche e deumanizzanti. In queste condizioni, una parvenza di umanità, rappresentata da una chiacchierata o da una partita a calcetto, aiuta le persone a ritrovare il contatto con loro stessi, riprendere fiato, e un domani ripartire più sereni.
Quando mi chiedono se mi piaccia il mio lavoro, io rispondo sempre di sì. Per me è bellissimo incontrare ogni giorno nuove persone, conoscere le loro storie, inventare dei modi creativi per farle stare meglio. Allo stesso tempo, il mio è un “sì” consapevole del fatto che in un mondo ideale, il mio lavoro non dovrebbe esistere. Se l’Unione Europea non fosse una fortezza e scegliesse di implementare politiche migratorie efficienti, il Centro di Lipa non esisterebbe. Le persone che lì incontro ogni giorno non avrebbero bisogno di percorrere chilometri su chilometri a piedi, rischiando la vita, per poi scoprire che il confine per loro rimane chiuso. Potrebbe esistere una modalità più dignitosa per raggiungere un luogo sicuro, fare richiesta di asilo, ottenere un lavoro che permetta loro di vivere sereni e aiutare le loro famiglie.
Di fatto, mentre apprezzo l'opportunità di fare la differenza nella vita di coloro che incontro, sogno un mondo in cui il mio lavoro non sia più necessario. So che il cambiamento non avverrà a breve, ma sperare è sempre bello.