Sono ormai passati più di quattro mesi dal nostro arrivo a Bihać e l’estate ha lentamente ceduto il passo all’autunno. La città non è più piena di turisti ma, a differenza di quanto avveniva quest'estate, non è difficile incontrare gruppi di migranti anche in centro, che provano a fare l'elemosina o a vendere fazzoletti di carta ai semafori, che passeggiano per le vie di Bihać o che si preparano per il game. La polizia croata ha di nuovo intensificato i controlli e i segni che lascia sono ben visibili sul corpo dei migranti, per loro raggiungere l’Unione Europea è diventato molto più difficile rispetto ai mesi scorsi.
Io sono Claudia, con Irene, Federica ed Elena sono una delle quattro ragazze in servizio civile universale con IPSIA a Bihać, in Bosnia-Erzegovina, e oggi vi parlo delle mie sensazioni in una città che porta ancora sul volto le ferite della guerra degli anni ‘90, che manifesta in favore della Palestina e che sa accogliere a braccia aperte ma anche essere spietata e respingente.
A inizio mese Silvia, la nostra responsabile, ci ha accompagnate a Mostar per qualche giorno per vedere un’altra parte di questo Paese dalle mille sfumature, per provare a conoscerne un altro pezzettino di storia. Tornata a Bihać, mi sono accorta che camminare per queste strada a volte mi fa uno strano effetto. La maggior parte del tempo mi sembra di camminare per le strade di una qualunque cittadina di provincia europea, vivere a Bihać è “facile”: è pieno di pekare – panetterie –, bar, supermercati, farmacie, negozietti. Tutto l’occorrente per la vita quotidiana è di solito a pochi passi da casa e anche chi non parla la lingua locale riesce a farsi capire piuttosto bene. Poi però, in alcuni momenti basta spostare un po’ lo sguardo e si notano i segni di proiettili ancora ben visibili sulle facciate dei palazzi, o i segni delle granate esplose trent’anni fa che ancora deturpano i marciapiedi. Giri l’angolo e – se guardi bene – quelle mura immerse ormai nella vegetazione appartenevano ad una casa che è stata distrutta da un bombardamento. Se vuoi fare una passeggiata in montagna devi sapere che se esci dal sentiero potresti saltare su una mina inesplosa. Vivere a Bihać significa confrontarsi quotidianamente con la guerra degli anni ’90, anche se non l’hai vissuta. Anche se sei italiana e non ne sai abbastanza.
Questa città la guerra la ricorda bene e giovedì scorso in centro c’è stata una manifestazione in favore della Palestina. La causa palestinese è sposata con ardore da quasi tutti i bišćani – i cittadini di Bihać – preoccupati del disastro umanitario che si sta consumando a tremila chilometri da qua, con lo spettro di un’altra guerra contro i musulmani che aleggia nell’aria e angoscia anche i più giovani.
Allo stesso tempo però, la popolazione locale non sempre vede di buon occhio i migranti – spesso proprio musulmani – che attraversano la Bosnia-Erzegovina, e di conseguenza anche noi, che con loro lavoriamo, dobbiamo mettere in atto degli accorgimenti per evitare di diventare un bersaglio. Ad esempio, appena usciti dal campo ci togliamo i gilet con il logo di IPSIA per non essere identificati come “persone che lavorano con i migranti”. Da qualche settimana un account su Facebook commenta quasi tutti i post che pubblichiamo, scrivendo ad esempio che i migranti devono stare a Lipa (che si trova a 24 chilometri da Bihać, in un altopiano isolato) perché in città non sono i benvenuti, che nemmeno noi ragazze in servizio civile siamo le benvenute e che dovremmo portarci i migranti a casa nostra, oppure che il nostro staff dovrebbe andare in Palestina se davvero vuole dare una mano. Questo account è purtroppo però la voce di una fetta di bišćani anche consistente.
Eppure IPSIA è presente nel Cantone di Bihać dal 1997, e ha sempre lavorato – e continua a lavorare – con la popolazione locale. Eppure la prima risposta che i cittadini di Bihać hanno dato all’arrivo dei migranti nel 2018 è stata di accoglienza e immedesimazione perché “erano stati profughi anche loro”.
Chiaramente noi continuiamo il nostro lavoro, e chissà, magari un giorno i buchi dei proiettili sulle facciate dei palazzi di Bihać saranno levigati da un muratore proveniente da lontano, che conosce l’odore della guerra e dell’odio e sa che certe ferite hanno bisogno di tempo e cura per rimarginarsi.