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You will see…
25
Nov
2020

You will see…

“Last year in Bogovadja camp!”. A fermarmi è Y., un ragazzo afgano di 17 anni, che viaggia da solo. Uno tra i troppi minori non accompagnati che da anni attraversano le tante frontiere tra uno Stato e l’altro, per provare a vincere il game: quella sfida alle polizie e ai confini nel tentativo di raggiungere la terra promessa, un paese dell’Unione Europea – non importa quale – dove ricominciare la propria vita. Lontani da guerra, violenze, attentati, dittature. Vengono soprattutto da Afghanistan, Iraq, Siria, Iran, alcune regioni del Pakistan. Hanno abbandonato le loro case e le loro famiglie e come tanti prima di loro stanno attraversando la rotta balcanica, un corridoio geografico in mano ai trafficanti, che sino al 2014 serviva principalmente per trasportare la droga dall’Afghanistan ai mercati europei e che dal 2015 è diventato uno dei principali canali migratori verso l’Europa.

Y. è in viaggio da più di due anni. Viene da Kabul. Di suo padre, insegnante, si sono perse le tracce dopo una retata e la madre ha deciso di far partire il suo figlio maschio per non farlo finire nelle mani dei talebani. Con uno zaino, pochi soldi in tasca, si è unito a un gruppo in partenza e attraverso l’Iran e la Turchia ha raggiunto la Grecia. Mi aveva raccontato del suo viaggio rocambolesco davanti a una tazza di tè bollente, nel primo Social Cafè che Caritas e Ipsia  hanno aperto nel 2017 in una delle decine di centri di accoglienza aperti negli ultimi 4 anni tra Grecia, Macedonia, Serbia e la Bosnia Erzegovina con i soldi dell’Unione Europea. La rotta balcanica è infatti stata chiusa nel Marzo 2016, ma solamente sulla carta. Da anni assistiamo all’arrivo costante di famiglie, bambini, minori, uomini e donne in fuga. Semplicemente sono cambiati e si adattano nuovi percorsi per chi fugge dai conflitti mediorientali, il viaggio diventa più lungo, costoso e pericoloso, ma milioni di persone in fuga arrivano e spingono sui confini esterni d’Europa, chiedendo di entrare.

Sia Y. che le altre centinaia di persone che ho incontrato in questi ultimi tre anni parlano del viaggio quasi come se stessero parlando della storia di qualcun altro, non quella vissuta in prima persona. I racconti sono tutti simili, la corsa a folle velocità attraverso il deserto anatolico sui furgoni e pick-up. Ogni tanto qualche carcassa di veicolo seppellito dalla sabbia. Gli spari al confine con la Turchia, scheletri e corpi abbandonati nel nulla, l’attraversamento del mare tra la Turchia e la Grecia di notte su piccoli canotti, con la guardia costiera che se ti prende ti lascia alla deriva. L’attraversamento del Fiume Evros, cercando di non farsi vedere dalla polizia greca e i loro cani che abbaiano. Il fiume Drina, gelido e impetuoso, che ogni anno trascina con sé corpi che non verranno mai più ritrovati.

Racconta Y. di quando una bambina siriana di tre anni nel canotto sul mare greco piangeva e non riuscivano a farla smettere, e delle lacrime e delle preghiere della madre che aveva paura di morire, ma poi si mette a ridere come un qualunque teenager che vuole fare il grande, dicendo che lui no, non aveva paura. Chilometri e chilometri sotto le scarpe comprate per pochi soldi nei negozi dei cinesi o ricevute come donazione nei campi profughi dove ha dormito per mesi.  Lo avevo salutato lo scorso autunno in Serbia, era venuto al Social Cafè e mi aveva detto “Tomorrow I go, pray for me”.  Ho pregato per lui, e per tutti gli altri come lui, in viaggio da soli, da troppo tempo, scalzi, affamati, infreddoliti, senza nulla da perdere se non la proprio vita. Quanto si ridimensiona il valore dell’esistenza di fronte a questi viaggiatori laceri, quanto emerge la nostra fragilità e la nostra precarietà a questo mondo, quanto diventano pesanti e inutili tutti quegli oggetti di cui ci riempiamo le case e esistenze. E se in fondo bastassimo solo noi?

Ogni tanto ci siamo sentiti via messaggio, tra Facebook e Whatsapp. Aveva provato per tutto l’inverno ad attraversare il confine tra la Serbia e la Croazia, saltando sui treni o infilandosi nei camion. “My bad luck, mom, tomorrow again”. Poi ne avevo perso le tracce, come di tanti altri, ma con la speranza che ce l’avesse fatta. A volte a distanza di mesi si fanno vivi con nuovi profili per dire: ce l’ho fatta, sono in Germania, in Francia, grazie per tutto quello che hai fatto. Y. era sparito, in parte lo avevo anche dimenticato.

 

Sino a quando quest’autunno a un anno dal nostro saluto, me lo sono ritrovata davanti al Sedra, un campo per famiglie e minori non accompagnati vicino a Bihać.  Più alto, con qualche pelo di barba, più stanco. Stavo facendo una ricognizione per l’imminente apertura del Social corner, un progetto che ha visto aprire qua al Sedra e nel campo di Ušivak vicino a Sarajevo due angoli per l’animazione e l’educazione non formale, gestiti da Ipsia e Caritas. A Sarajevo ci sono anche altri soggetti a valorizzare il partenariato, come il Centro pastorale Giovanni Paolo II, l’associazione Youth for peace e il museo dell’infanzia di guerra. Il progetto ha visto la costruzione e l’arredamento di due spazi all’interno dei quali vengono realizzati ogni giorno laboratori, attività di animazione e socializzazione e in cui vengono serviti litri e litri di tè nero bollente, una delle bevande più diffuse e amate dalla popolazione che abita questi campi.

Y. mi dice: ha lo stesso sapore di quello in Serbia. Gli dico: dopo due anni ho imparato a farlo, non abbiamo più cambiato le dosi. Sono 30 litri d’acqua per ogni contenitore, due chili di zucchero e 60 bustine di tè nero che viene tenuto in macerazione per decine di minuti. A seconda del campo, ogni giorno nei nostri Social Cafè vengono serviti più di duemila tè neri fumanti.

Questi due Social Corner vanno ad aggiungersi al Social Cafè di Bogovadja in Serbia e al Social Cafè nel campo per single men di Bihać. La realizzazione di questo progetto è stata possibile grazie a Papa Francesco che in occasione della giornata mondiale del migrante e del rifugiato, celebrata il 27 settembre, ha deciso di inviare attraverso la Nunziatura Apostolica in Bosnia Erzegovina un segno concreto di sostegno ai migranti e ai loro accompagnatori.

Mi racconta Y. che dopo aver provato ad attraversare i confini croati e ungheresi si è poi spostato insieme ad altri ragazzi in Bosnia Erzegovina e che in primavera si è trovato sul confine Nord Occidentale bloccato in questo campo. La Bosnia Erzegovina oltre all’obbligo di mascherine, guanti e distanziamento sociale dal 21 marzo impone coprifuoco serale e lockdown.

In particolare con la motivazione che i migranti si spostano troppo liberamente e potrebbero essere portatori del virus, viene emanata una direttiva secondo la quale viene imposto “totale divieto di movimento dei migranti al di fuori delle strutture di accoglienza temporanea”. “Per i migranti è inoltre vietato spostarsi in treno, autobus, furgoni, taxi e su tutti gli altri mezzi di trasporto” dichiara il documento del governo del Cantone di Una Sana.

Per lunghi mesi chi sta nei centri non può uscire né per andare al game, né per far fronte a piccoli bisogni quotidiani come l‘acquisto di sigarette, ricariche telefoniche necessarie vista la scarsa copertura delle reti Wi-Fi nei campi o piccoli generi di conforto anche per i bambini. Il tutto in centri sovraffollati, senza distanziamento sociale, mascherine, guanti o igienizzanti.

Solamente con l’estate i campi vengono riaperti e ripartono in maniera massiccia i game. L’ultima frontiera prima del sogno è così vicina. La Croazia è a pochi chilometri, sono due settimane di cammino tra boschi e montagne, inseguiti dalla polizia, sino ad arrivare sul Carso triestino.

Mi racconta Y. di quando la polizia ha fermato lui e il suo gruppo. Dopo averli perquisiti e aver rubato soldi e cellulari hanno bruciato le loro cose: zaini, sacchi a pelo, ma anche vestiti e scarpe e li hanno rimandati in Bosnia Erzegovina scalzi e denudati a colpi di manganello. Decine e centinaia di testimonianze raccontano della violenza, delle umiliazioni e delle violazioni dei diritti umani esercitati sui tanti confini europei dalle polizie a difesa dell’UE e degli illegittimi respingimenti a catena, che partendo dai rintracciamenti della polizia italiana, rimandano indietro decine di persone dalla Slovenia sino alla Bosnia Erzegovina senza che sia possibile esprimere intenzione di chiedere asilo. Viene da chiedersi con che coraggio questi difensori della “patria” massacrano uomini innocenti che urlano di dolore e chiedono in lacrime la protezione internazionale di fronte agli occhi delle loro donne e dei loro bambini.

Anche questa volta Y. finge di non aver avuto paura, ma chi ci crede che non ne ha avuta questo ragazzo così alto e così magro, che viaggia da solo da due anni, bloccato in un Paese nel quale non vuole stare, senza sapere più come andare avanti e senza poter tornare indietro, colpevole solo di essere nato nel Paese sbagliato con un passaporto che non vale niente.

Davanti all’ennesimo bicchiere di tè bollente mi racconta che ci riproverà ancora e che mi scriverà dall’Italia. “Inshallah mom you will see”.

https://nellaterradeicevapi.wordpress.com

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